I GOVERNI DI NITTI E DI GIOLITTI (1919-1920-1921)

L'esito infelice della Conferenza di Versalles di fronte alle aspettative italiane obbligò Vittorio Emanuele Orlando a rassegnare le dimissioni, lasciando il posto, nel giugno del 1919, a Francesco Saverio NITTI (1968-1953). Egli, abile economista e prestigioso esponente liberale dei settori radical-democratici, autore di opere quali Il Bilancio dello Stato dal 1862 al 1896 e Napoli e la questione meridionale in aperta polemica con la politica economica dell'età giolittiana, si radicò fermamente nella convinzione che fosse necessaria una rapida crescita economica per porre un rimedio alla situazione post-bellica di crisi, soprattutto con provvedimenti fiscali volti a colpire i redditi pi elevati.

Nel piano più strettamente politico Nitti si impegnò in quell'opera di cancellazione ed eliminazione delle vecchie clientele giolittiane che contrastavano le sue convinzioni spiccatamente democratiche, sostituendo il vecchio sistema elettorale uninominale con il sistema proporzionale, richiesto con entusiasmo dai gruppi popolari e socialisti. Ma la situazione non tardò a degenerare precipitosamente. I continui aumenti dei prezzi, le mancate promesse della terra ai contadini alimentarono nell'estate del '19 una serie di agitazioni popolari, guidate specialmente da quei settori massimalisti del partito socialista, le quali spesso sfociavano in scioperi di natura esplicitamente politica con frequenti episodi di violenza e di illegalità.dannu.jpg (16959 byte)

A ciò si aggiunse, a complicare ulteriormente la situazione, l'occupazione militare della città di Fiume il 12 settembre 1919 da parte di truppe volontarie alla cui guida vi era il poeta Gabriele D'Annunzio, che non nascondeva con entusiasmi nazionalistici il progetto di marciare fino a Roma per sbarazzarsi del governo liberale di Nitti. La città di Fiume, a maggioranza italiana, non era stata prevista nel trattato di Londra ma avrebbe dovuto essere assegnata comunque all'Italia per il principio di autodeterminazione dei popoli che ispirò in buona misura i trattati di pace di Versailles. Tale occupazione creava una imbarazzante crisi diplomatica internazionale, di cui si resero pienamente conto uomini come Giolitti o lo stesso Nitti che avrebbe preferito approfittare dell'episodio per far pressione sugli Alleati.

Nel frattempo le elezioni politiche con il nuovo sistema proporzionale del novembre 1919 sancirono definitivamente il crollo della vecchia classe dirigente liberale, favorendo invece i grandi partiti di massa quali il PPI e il PSI. Il governo Nitti si trovava quindi di fronte a gravi problemi di natura sociale, economica, diplomatica e politica; messo in minoranza sul decreto di aumento del prezzo politico del pane, egli rassegnò le dimissoni nel giugno del 1920 e lasciò il posto all'ottantenne Giovanni Giolitti.

Proprio per la sua lunga esperienza questi era visto come il solo capace di porre un rimedio alla situazione di gravissima crisi (crisi che del resto egli stesso aveva previsto prima di un eventuale entrata in guerra da parte dell'Italia). Per trovare una soluzione all'occupazione fiumana Giolitti cercò un riavvicinamento con la Iugoslavia, firmando due trattati (trattato di Tirana e di Rapallo) che in qualche modo ridefinissero le aree di influenza italiane nella zona balcanica: l'Italia divenne così il fulcro e l'appoggio per gli stati appartenenti all'ex Impero asburgico. Fiume venne dichiarata città stato indipendente e le truppe di D'annunzio vennero fatte rapidamente sgomberare suscitando inevitabilmente le ire dei settori nazionalisti.

Nell'estate del 1920 le agitazioni operaie portarono all'occupazione di circa 300 fabbriche, aprendo la strada a prospettive rivoluzionarie, a "fare come in Russia", come si diceva allora; Giolitti confermò la sua politica di mediazione optando, come negli anni antecedenti al conflitto, per il non-intervento dello Stato, lasciando che tali agitazioni si esaurissero da sé. Ai massimalisti, già frenati dal troppo verbalismo dei socialisti moderati, venne a mancare così la possibilità di un'insurrezione armata concreta, venendo meno l'inervento del governo, avversario "indispensabile" per un capovolgimento della situazione. Essi si staccarono definitivamente dall'area riformista per dar vita nel 1921 a Livorno al Partito Comunista d'Italia, PCd'I, che aderì alla terza internazionale.

L'atteggiamento mediatore giolittiano apparve però negli ambienti conservatori troppo debole proprio quando era, secondo loro, necessaria una maggiore determinazione contro il perico imminente delle forze socialiste, la cui ala moderata non trovava accordi nemmeno con i settori della borghesia liberale. Giolitti era isolato: la sua politica cauta e di mediazione non trovava un riscontro e un'accoglienza in un clima di forti tensioni post-belliche.

Nella ricerca del sostegno per la sua azione politica egli pensò allora di riferirsi alle forze fasciste, che proprio allora cominciavano ad assumere dimensioni notevoli, organizzate in squadre d'azione ( RAS ) ingaggiate da grandi proprietari terrieri per aggressioni cotro le sedi socialiste e cattoliche, ritenute responsabili delle continue agitazioni. Giolitti era convinto che questi fascisti fossero "soltanto fuochi d'artificio" che si sarebbero presto spenti: si presentò così alle elezioni del maggio 1921 con "blocchi nazionali" per contrastare l'avanzare dei partiti di massa. Il Parlamento, a differenza di quanto aveva immaginato e sperato il vecchio uomo di Stato, apparve allora assai frammentato e i 35 fascisti eletti assieme ai 10 nazionalisti passarono subito all'opposizione.

A Giolitti vennero a mancare le basi per poter contare su una solida maggioranza e rassegnò le dimissioni il giugno di quello stesso anno.Si prospettava la crisi che portò alla Marcia su Roma.